Che cos’è una biblioteca d’autore? A partire da quale momento si può parlare di una biblioteca d’autore? Sappiamo dagli studi di Michel Foucault, Pierre Bénichou, Alain Viala e, più recentemente, di Roger Chartier, quanto il concetto moderno di scrittore sia intimamente legato a quella di autore, due nozioni complesse, talvolta difficilmente delimitabili, soprattutto per il XVIII secolo, vero secolo cerniera, che conosce una serie di rivoluzioni nelle pratiche di lettura e nelle modalità con cui ci si accosta al libro e alle biblioteche. Tra i mutamenti più importanti che sembrano verificarsi proprio nel corso del Settecento c’è quello che investe la funzione autoriale. Gli scrittori cominciano a mettere a punto strategie nuove per testimoniare la loro attività autoriale. Tra queste ci sono la conservazione dei manoscritti autografi, con la costituzione di veri e propri archivi, e dei propri libri, raccolti in collezioni che tendono, nel corso del secolo, a distinguersi sempre più nettamente da semplici biblioteche private o di famiglia per diventare biblioteche d’autore. Da questo punto di vista il caso di Vittorio Alfieri è un caso significativo, almeno per l’area italiana. Per Alfieri, scrittore nella cui riflessione il problema della proprietà intellettuale e della libertà di scrittura svolgono un ruolo cruciale, la biblioteca e le letture che hanno alimentato il lavoro preliminare delle sue opere rientrano pienamente in questa strategia di costruzione dell’autore e acquisiscono un valore simbolico. La biblioteca, le letture e le pratiche di lettura materializzano il legame e l’iterazione tra l’atto individuale della creazione e lo spazio sociale in cui lo scrittore è immerso. La biblioteca di Alfieri contribuisce allora non meno dell’autobiografia a delimitare lo spazio letterario al cui interno lo scrittore agisce. Per la prima volta nella storia della letteratura italiana moderna, una biblioteca privata diventa una biblioteca d’autore.